7 dicembre – 2 gennaio al Teatro alla Scala
Dopo aver ripercorso lo sviluppo dei primi anni creativi di Verdi con le inaugurazioni di stagione dedicate a Giovanna d’Arco, Attila e Macbeth, Riccardo Chailly torna a un capolavoro della maturità del compositore, Don Carlo, di cui ha consegnato al video una memorabile edizione ad Amsterdam alcuni anni fa. Il superbo dramma politico schilleriano composto per Parigi e riadattato per la Scala da Verdi è stato storicamente un appuntamento immancabile per i Maestri scaligeri, da Tullio Serafin ad Arturo Toscanini fino a Claudio Abbado, che lo diresse due volte per il 7 dicembre nel 1968 e 1977, e Riccardo Muti. Per la nuova produzione torna alla Scala Lluís Pasqual, che dall’esperienza dal Teatre Llure di Barcellona agli anni con Strehler al Piccolo e all’Odéon di Parigi ha fatto della riflessione sul Barocco una costante della sua attività. In scena un cast di assoluto riferimento, con Michele Pertusi, Anna Netrebko, Francesco Meli, Elīna Garanča, Luca Salsi e Ain Anger.
Genesi dell’opera
Nel dramma schilleriano, ambientato nella Spagna del XVI secolo, Verdi rintracciava una tesi di fondo di natura etica e ideologica, che condivideva profondamente e dalla quale si sentiva attratto: l’idea che l’assolutismo e la ragion di Stato, qui incarnati dal re di Spagna Filippo II, siano inconciliabili sia con le inclinazioni personali sia con l’aspirazione alla libertà dei popoli, di cui si fa portavoce Rodrigo, il marchese di Posa. Il contrasto politico, dal quale si sprigiona una grande forza drammatica, è dunque uno dei grandi temi di fondo dell’opera verdiana. Altrettanto intrigante doveva essere, per il compositore, il motivo dell’amore tra la regina e l’infante, impossibile per ragioni politiche e causa della loro personale tragedia. Verdi, infine, doveva sentirsi attratto da un altro motivo ancora, quello della nobile e disinteressata amicizia tra Carlo e Rodrigo, che si vena di motivazioni patriottiche nel momento in cui il secondo conquista il primo alla causa del popolo fiammingo. Verdi si mantenne sostanzialmente fedele allo spirito del denso dramma di Schiller e ne trasse, dopo averlo meditato a lungo, una delle sue partiture più monumentali.
Don Carlos, il cui libretto fu steso in lingua francese da Joseph Méry e Camille du Locle, fu preparato per l’Opéra di Parigi, dove andò in scena l’11 marzo 1867. Del massimo teatro parigino Verdi aveva già avuto esperienza diretta: nel 1855, scrivendo e facendovi rappresentare Les vêpres siciliennes, si era familiarizzato con quel complesso sistema teatrale e con il grand opéra di ampie dimensioni. Verdi fece proprie certe caratteristiche di quel genere, prima fra tutte la propensione alla spettacolarità: dai suoi librettisti pretese, fra l’altro, la grandiosa scena di massa dell’autodafé, di cui non c’è traccia nel modello letterario schilleriano. Ma non accettò supinamente tutte le leggi imposte da quella particolare forma di teatro musicale: per incatenare l’attenzione degli spettatori Verdi fece affidamento, più che sugli aspetti esteriori, sul dramma interiore dei personaggi che agiscono sulla scena. Così facendo, il musicista italiano seguiva la propensione personale a un diverso linguaggio drammatico, che non sempre si conciliava con la grandiosità spettacolare dell’Opéra: al pubblico parigino Verdi impose quei meccanismi drammatici, concisi e pregnanti, e quella concezione del teatro che Don Carlo già in patria ne avevano decretato il travolgente successo. Dall’opera originale francese, in cinque atti, Verdi ricavò anni dopo una versione italiana dalla quale eliminò, oltre all’atto iniziale, i ballabili; con il titolo Don Carlo, la versione in quattro atti venne presentata alla Scala il 10 gennaio 1884 e rimase – lo è ancor oggi – la più frequentemente rappresentata. L’opera verdiana fa agire sulla scena una vera galleria di anime inquiete.
Al centro sta la figura di Filippo II, re di Spagna e padre di Don Carlo; il soliloquio introspettivo “Ella giammai m’amò”, sottolineato dalla dolente melodia dei violoncelli, traduce l’impotenza del potere reale davanti all’animo umano e restituisce magistralmente tutta la complessità psicologica del personaggio. L’evoluzione della figura di Elisabetta conduce quest’ultima dalla grazia sorridente delle sue iniziali inflessioni melodiche verso un canto spezzato e teso che esprime la sofferenza, l’oppressione dolorosa di un destino che la condanna a un matrimonio senza amore; il momento chiave del personaggio è “Tu che le vanità”, un monologo rassegnato ma sereno, dolcemente avviluppato negli arpeggi dei legni. Don Carlo, l’innamorato spinto dalla forza della passione e delle sue giovanili illusioni, mostra la sua evoluzione soprattutto negli intensi duetti con Elisabetta, nei quali passa dalla pienezza del sentimento amoroso alla disperazione e poi alla rassegnazione dell’addio. Non meno complesse, né meno sfaccettate, sono le figure della principessa d’Eboli e del marchese di Posa. Sullo sfondo l’atmosfera, opprimente e un po’ morbosa, dell’Inquisizione, che nella sua severità contrasta singolarmente con la fragilità dei sentimenti umani. Numerose le scene dal grande impatto drammatico. Nella terribile scena del Grande inquisitore, in cui l’inquietante vecchio pretende dal re il sacrificio del marchese di Posa alla ragion di Stato, si assiste alla contrapposizione tra due forti volontà, nel quale si incarna l’eterno scontro tra il potere temporale e l’ecclesiastico.
Trascinante il canto delle voci congiunte ed esaltate di Carlo e Rodrigo, che nel loro duetto celebrano, a ritmo di marcia, l’amicizia fraterna. Teso e grandioso il finale dell’Atto secondo, con le voci della folla accorsa all’autodafé, la marcia funebre minacciosa e cupa, la voce mistica che dal cielo promette ai defunti la pace celeste, il colpo di scena dell’arrivo dei deputati fiamminghi, venuti a perorare la loro causa davanti al re. È una grande scena che concentra il conflitto drammatico e sintetizza lo scontro tra le forze negative e positive del dramma. La musica di Verdi, con somma abilità introspettiva, dà espressione a ogni sfumatura psicologica, a ogni variazione di carattere. Anziché abbandonarsi al tradizionale florilegio melodico dell’opera italiana e incasellare la sua musica nei pezzi chiusi, Verdi impiega un linguaggio moderno, armonie cromatiche e instabili, effetti orchestrali ricchissimi e ricercati, e soprattutto forme fluide e flessibili. L’opera che scaturisce dalla sua fantasia creatrice non si lascia catalogare nelle anguste categorie di un genere, tanto meno in quelle del grand opéra. Forse meno unitaria di altre opere verdiane, in Don Carlo sono però ineguagliate la potenza dello scavo psicologico, la forza drammatica e l’efficacia rappresentativa.