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Enrico Beruschi spegne 80 candeline

 “Ricordare il passato mi aiuta ad andare avanti”.

Non taglia la barba dal primo maggio del ’67, il cappuccino lo prende tiepido ed è milanese doc, di sponda interista. Ho avuto il piacere di fare un’altra chiacchierata con il comico, attore e cabarettista Enrico Beruschi in occasione del suo ottantesimo compleanno.

Arrivato a 80 anni, Enrico, tendi più a guardare alle cose che hai fatto o a quelle che farai?

Sono a metà, mi piace pensare a quello che ho fatto, alle esperienze che mi hanno dato forza e coraggio. Ho degli amici che dicono sempre che bisogna guardare avanti, io dico che quello che è successo è bello e trovo sia importante da ricordare, non per rimanere ancorati al passato, ma perché deve essere un bagaglio che uno ha: invece che uno zaino mi piace immaginare questo bagaglio come una macchinetta su cui sei seduto che ti aiuta ad andare avanti. Non so se sono riuscito a spiegarmi.

Ti sei spiegato benissimo. Della tua vita privata non si sa praticamente niente, quindi non ti chiederò niente.

C’è wikipedia che racconta delle balle. L’altro giorno l’ho aperto: dice che sono sposato con Margherita Fumero e che abbiamo un figlio. Io e Margherita siamo colleghi, amici, ci sentiamo spesso, ma non ci siamo mai sposati. E poi di figli ne ho due.

Ma non con Margherita.

Esatto, con mia moglie.

Ora sappiamo con certezza che sei sposato ed hai due figli.

Da 47 anni. E ho una nipotina.

Questo lo sapevo. Volevo appunto chiederti: che nonno sei?

Sono un nonno che spera di essere da esempio. Penso che i nonni abbiano il dovere di raccontare ai giovani il passato, di ampliare la mente dei propri nipoti. Pensa che la mia nipotina ha preso dei bei voti a scuola per delle cose che le ho raccontato ridendo. Ho una buona memoria storica, mi piace raccontare.

“Ero bruttino, ma sapevo raccontare bene le storie”, appunto. Perché dici sempre che eri bruttino?

Perché quelli belli sono diversi. Però questo mi ha fatto sviluppare altre qualità: in pochi minuti riesco a creare un’atmosfera sorridente.

Riesci a creare bellezza.

Questo non lo avevo mai considerato.

In tutte le tue interviste la tua milanesità emerge sempre, direi orgogliosamente.

È di profonde radici. Uno più milanese di me è difficile trovarlo.

Ti riporto alla tua adolescenza milanese. È vero che frequentavi le scuole medie di Via Tabacchi con Renato Pozzetto?

Sì, Renato è un anno più grande di me e dopo che è stato bocciato in seconda media ci siamo ritrovati in classe insieme, eravamo ai primi banchi.

E alle superiori?

Dopo le medie ho studiato ragioneria all’Istituto Cattaneo in Piazza della Vetra e lì mi sono trovato in classe con Cochi Ponzoni per due anni, mentre Renato studiava da geometra.

Chi era più bravo a scuola fra i tre?

Cochi era bravissimo in inglese, lo invidiavamo tutti perché era bello e sapeva l’inglese. Negli anni sia lui che Renato hanno confessato che qualche volta copiavano da me in matematica, ragioneria, quelle materie lì.

Dai banchi di scuola vi siete poi ritrovati al palco del Derby.

Il Derby era una gioia, un paradiso per i giovani volenterosi, era tutto il Derby. Il grande del Derby era Gianni Bongiovanni a cui tutto il cabaret, tutti noi dobbiamo tanto.

Non abbiamo ancora citato “Drive In”.

Ne parlano tutti e raccontano delle gran balle, ma non ho mai avuto voglia di parlarne, non ho mai voluto far polemiche.

Recentemente è scomparso Gianfranco D’Angelo, tuo collega e amico col quale hai lavorato proprio a “Drive In”. Qual è il primo ricordo che hai di Gianfranco?

Quando in “Drive In” si accorsero del mio accento marcatamente milanese, per bilanciare l’Italia che è lunga, mi proposero Gianfranco e fui molto contento perché avevamo già avuto dei piacevoli incontri nel ’78 durante il programma “La Sberla”. Di ricordi che mi legano a Gianfranco ne ho tanti, eravamo amici e la sua scomparsa mi addolora molto.

Taty Rossi